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il manifesto
15 Febbraio 2000
 

IN CONCORSO ALLA BERLINALE IL FILM DI PAUL ANDERSON

Il profumo fatale di "Magnolia"

In gara il film di Ozon, tratto da Fassbinder. E l'opera seconda del regista di "Boogie nights". Anthony Minghella e le sue star di "The talented Mr.Ripley". L'Italia si distingue al Forum con "LaCapagira"

- ROBERTO SILVESTRI - BERLINO

I l cielo sopra la città è azzurro in questi giorni di festival, tra i più miti, climaticamente, degli ultimi anni. Si continua cone lo stesso schema voluto dal boss della Berlinale, de Hadeln: ogni giorno un film così così che affianca almeno un grande evento, con star. Le star di domenica erano Gwyneth Paltrow e Matt Damon, il film The talented Mr.Ripley, dal giallo di Patricia Highsmith, un divertimento inglese, non privo di momenti caldi (tre omicidi efferati e improvvisi) e di un'atmosfera sensuale libertina che circonda i corpi dei co-protagonisti, ma più quelli maschili di Jude Law e Philip Seymour Hoffman che Cate Blanchett o Stefania Rocca, troppo calcate sullo stereotipo, su come gli americani vivono e godono "orientalisticamente" l'Italia, di Fellini e del caso Montesi, della Dolce vita e della dolce Venezia, della Roma cool e della costiera amalfitana mozzafiato.

Con argute ironie sulla loro imperizia, insensibilità e arroganza: capisce più Ivano Marescotti, il colonnello Verrecchia, di tutti i super poliziotti privati e pubblici che un magnate sguinzaglia, nel 1958, per sapere che fine ha fatto il suo ricco figliolo, jazzomane e sciupafemmine, caduto nelle solite grinfie di un povero accordatore di piano, falso, bello e ambizioso.

Di hitchockiana inventiva c'è però solo la scena del terzo assassinio, che sfrutta le potenzialità del cinema sonoro come non avviene solitamente. Per il resto il film è in salsa esotica David Lean/James Ivory e manca di concentrazione visuale. Peccato perché le star hanno volti levigati all'apparenza, ma sostanzialmente double face, e il mistero potrebbe swingare davvero. Invece Anthony Minghella, regista un po' compito, un po' arruffone, paralizza l'happy end imprigionando il suo anti eroe Tom Ripley in uno schemino schizofrenico ripetitivo che non cela l'aristocratico disprezzo del regista per qualunque scalatore sociale che, senza nobiltà, voglia percorrere strade proibite. Matt Damon, come white boy, non deve insomma possedere - ordini del regista - nemmeno un grammo del fascino di una femme noir.

Concorso. Gocce d'acqua su pietre che bruciano di Francois Ozon (Francia) mette in scena, a volte in modo commuovente, a volte in modo schematico e riduttivo, un testo giovanile di Fassbinder sull'impossibilità di amare ambientando negli anni settanta tedeschi, ma in testo francese, una tragedia sentimentale che sfocia in un quasi ridicolo suicidio. Non esiste l'amore, ma solo la spinta all'amore. Il balletto sadico coinvolge un rappresentante di commercio di 50 anni e le sue tre prede, un ventenne efebico, la sua fidanzata emotivamente pericolosa e un antico amante del signorotto, che fu da lui costretto a cambiare sesso e diventare donna per poi essere buttata sul marciapiede e cacciata via... tre prede degradate a pura merce di godimento o buttate come spazzatura via via che la passione si affievolisce, le divergenze si trasformano in noia litigiosa e rancorosa e sono ormai solo loro tre ad avere via via bisogno di lui.

Il quartetto di attori (su tutti Bernard Giraudeau) ha fascino, il set mantiene la tristezza di un appartamento fassbinderiano della squallida piccola borghesia neocapitalista, ma l'operazione sembra troppo cartesiana: come cercar di dare una pettinata alla scrittura febbrile e misteriosa del più scapigliato genio del cinema drammatico europeo degli ultimi decenni.

Il capolavoro. Non sarà perfetto e originale come Boogie nights e certo è ancora più ambizioso, ma il migliore film finora visto in gara è l'ultimo di Paul Thomas Anderson, Magnolia. Una partitura affascinante e complessa, quasi un contrappunto di suites, che si svolge tra alcune famiglie della San Ferdinando Valley (siamo proprio alla sfida, sullo stesso terreno, con America Beauty, e noi siamo per dare la America's cup a Anderson): un patriarca sta morendo e la moglie che aspirata al suo denaro ora non si dà pace, vuole perdono per averlo sempre tradito; il figlio ha rotto i rapporti col padre di fronte a quello squallido balletto è diventato un predicatore macho di fallocatico estremismo il cui motto è: uomini seducetele e distruggetele... E poi c'è un altro malato terminale di cancro che ha distrutto la figlia, ora eroinomane ma anni prima più volte violentata da lui; un poliziotto che prende a cuore la sorte della ragazza; un piccolo genio di quiz tv che manca dell'amore paterno; un venditore di componenti elettroniche, fallito e gay represso, che medita una rovinosa vendetta... Insomma, un balletto di dolori e crimini sotterranei, di delicatezze invisibili e ferite irreversibili scatenate dai nostri normali, tradizionali, naturali rapporti familiari. Il film tocca con coraggio e sensibilità questioni filosofiche e esistenziali come il suicidio, l'omicidio, il tradimento, il caso, il senso di colpa, con il tono della lucida, incalzante, barocca predica religiosa. E non manca di un colpo di scena improvviso, plausibile, di cattolica teatralità. Pentitevi davvero dei vostri peccati e sarete redenti. Il migliore cinema americano ha questa furia da esegesi biblica, d'altra parte, da Huston a Welles, da Eastwood a Peckinpah. E come i suoi maestri anche Anderson possiede una tavolozza espressiva infinita, originalità di fraseggio, densità armonica che non offusca la chiarezza narrativa, ma in questo caso anche un senso dell'umorismo che non banalizza mai la tragedia (come succede in American Beauty) anzi la rende insostenibile.

Forum. LaCapagira opera prima dell'italiano, anzi salernitano, indipendente Alessandro Piva (stretto collaboratore di Corso Salani), scritta con il fratello Andrea sui corpi di attori strepitosi, prodotti e non presi "dalla strada", come i baresi Dino Abbrescia, Mino Barrabese, Mimmo Mancini, Dante Marmone, Paolo Sassanelli. Una commedia nera, tra Bombolo e Abel Ferrara, Jack Hill e Cannavale, che penetra per la prima volta senza paraocchi e attrezzature moralistiche dentro un mondo, quelle delle periferie criminali più umili, con lo sguardo fenomenologico che ha reso grande il cinema Usa e non con le occhiatacce giustizialiste (o peggio papuliste) che hanno reso noioso, deprimente, falso e reazionario quello italiano. Perché sempre costretto da non scritte leggi speciali d'emergenza sull'immaginario, a deprecare, colpevolizzare, censurare, scandalizzarsi ipocritamente, istigare alla redenzione, ma solo chi è troppo piccolo per comparire da soggetto protetto sui mass-media.

Solo questo film fa intuire che il giro d'affari nel triangolo d'oro d'Europa, è immenso e come al solito solo le briciole (e gli anni di galera) vanno ai nostri spietati e goffi eroi micro-spacciatori, compreso il boss Carrarmato... Era un inverno buio e tempestoso a Bari, quando uno sbarco dei turisti poveri dà inizio a una geografia della sopravvivenza che coinvolge sigarette di contrabbando, hascisc gettato dal treno, gioco d'azzardo, piccoli e medi tecnici della criminalità infinitesimale affrontati da pesci sempre più grandi e invisibili. Un film capace di condurci dentro un mondo, quella della sopravvivenza sottoproletaria, che o viene di solito censurato o edulcorato o banalizzato, o mistificato o malissimo criminalizzato.


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